IL SONNO DELLA RAGIONE GENERA MOSTRI

Nulla più dei giocattoli è materia e pretesto di fantasia per quanto somiglianti alle cose vive li abbian fabbricati. Che è mai un giocattolo infatti se non vi si annetta un significato, un nome, un simbolo, se non ne facciamo insomma il feticcio d'un qualche periodo della nostra vita, d'una stagione dei sogni? Ecco: passano gli anni; il bambino si è fatto uomo; nella vecchia gozzaniana soffitta di casa riscopre i giocattoli d'un tempo e se essi hanno il potere di ridestargli, come nel balenio di un flash, un ricordo, al tempo stesso sono la spietata accusa dell'inarrestabile scorrere del tempo; e quei giochi, quelle fantasie, quei significati che vi si annettevano sono ormai fuori di noi; sono ormai loro: vizi, difetti e sogni oggettivati nella "cosa" che adesso ci riguarda, quasi ostile, estranea. Forse Lorenzo Alessandri se n'è trovato uno davanti agli occhi di quei giocattoli, una bambola o un fantoccio nella vecchia soffitta, le viti allentate, un po' di stoppa che gli usciva dal ventre, come le interiora, e alla memoria gli saranno certo passate allora le illusioni spente, gli errori e i terrori dell'infanzia e, insieme una lampeggiante e tentante frase di Francisco Goya, "il sonno della ragione genera mostri" e qui, nel caso della bambola, la ragione, oltrechè dormire, non c'è, ma le fu imposta di forza, dal di fuori, un robot guidato dall'inconscia crudeltà di un fanciullo. Cosa può imporre a una bambola l'artista, oggi? Come e contro chi può azionare questo robot di stoppa se non contro coloro che, abbandonata la spontaneità dell'infanzia, ogni giorno offendono l'uomo e la sua natura? Ecco il tema di centro che ancora, dopo tre anni da quando la iniziò, affascina e propone nuovi temi e variazioni al nostro pittore, sul filo di una lucida, allucinante e sin macabra sarabanda sulle falde del Sabba. I tragici spettri goyeschi, i mascheroni dei vizi di Daumier, i mostri ironici mascherati da uomini ghignanti di Ensor, le larvate forme di Dubuffet sembrano essere i precedenti figurativi di questa parata di staordinarie presenze in cui paiono condensarsi il disagio, la tristezza, la paura, le brutture, i pericoli del nostro tempo. Ma se stimolante si rivela il mondo di Alessandri per quanto concerne la morale della sua iconografia, saranno a questo punto da vedere e da capire i mezzi pittorici e tecnici a sua disposizione per attuarlo nell'arte. Ogni quadro si profila dunque su un fondale simile ad un armonioso arazzo d'astrattistica ascendenza - nel senso di una fusione quasi minerale del colore, marmorizzato e luminoso come nei "muri" di Rosai - e si fa figura con linee spezzate e convulse, in gesti, in pose grottesche, ironiche, tragiche, personificazioni di vizi e di malattie dell'anima, dove le viti delle giunture del pupazzo paiono ferite o dolorosi agganci ortopedici e le articolazioni dei corpi ramentano drammi umani di questi tempi, dal "thalidomide", ai rachitici, agli atomizzati. A questo punto ci sarà però da precisare una sostanziale differenza fra questo leit-motif di Alessandri e un personaggio molto in voga nel nostro tempo (proprio anche lui per simboleggiare l'uomo) e cioè il manichino, primo attore del secolo ventesimo; se questo è un eco della civiltà della macchina, inerte, geometrica, silenzioso, queste bambole del pittore torinese son cose vive, incubi d'una realtà attuale che è troppo comodo dimenticare e cercare di non vedere. Son bambole cresciute nella pena dei campi di sterminio e cui tocca di sopportare ulteriori brutture e patimenti, non vuote esercitazioni sul geometrismo e sui canoni del bello. Con questo non si vuol certo dire che Alessandri intenda proporre un linguaggio esclusivo, qualcosa di diverso dalla pittura; non bastassero gli esempi illustrati che abbiam citato, basterebbe esaminare, in sè stesso, il colore, modulato su colori fusi fino a farne uno solo - come s'usava nell'Ottocento - e considerare la linea metallica, indurita ma pur energicamente sciolta e infine lo spazio, d'ordine tipicamente atmosferico più che prospettico. Un "ambiente" tipico di favola surrealistica, nonostante le già accennate "complicazioni" espressioniste, e che Alessandri ancor meglio conferma in certe sue preziose tavolette (smaltate e lucide come del Bosch e dei Brueghel) popolate da animali da fondo marino o da insetti scoperti al microscopio e ingranditi da incubo. Surrealismo-espressionista, dunque, quello di Alessandri? Come tutte le definizioni schematiche anche questa pecca di precisione, mancandovi l'accenno alla lezione astratta che Alessandri ha saputo assimilare e alla sua elaborazione di una nuova figurazione, che è tema di questi giorni e dei prossimi anni, nel mondo.
(di Giorgio Mascherpa per il catalogo inerente alla mostra di Firenze del 1963).

Opera dal titolo: RITUALE SCONVENIENTE

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